Lo sposalizio è stato il corpo e il pane della comunità. Il
mattone fondante della comunità. Veniva consumato con il cibo e con la musica.
Una specie di eucarestia in cui la nuova coppia veniva ingerita dalla comunità
che gli si stringeva intorno avvolgendola di stelle filanti nell’ultimo,
infinito ballo dei “ziti” (che così si chiamano tanto gli sposi quanto la
pasta). La musica aumentava vorticosamente di ritmo fino ad assorbire la coppia
che finiva per girare avvolta come uno spiedo in una girandola colorata di fili
di carta. A quel punto era digerita e pronta per generare e rinnovare la
comunità.
Questa musica che accompagnava il rito era musica umile, da
ballo, adatta ad alleggerire le cannazze di maccheroni e a “sponzare” le
camicie bianche, che finivano madide e inzuppate, come i cristiani che le
indossavano.
Un repertorio di mazurke, polke, valzer, passo doppio,
tango, tarantella, quadriglia e fox trot, che era in fondo comune nell’Italia
degli anni ‘50, ‘60, e che si è codificato come una specie di classico del
genere in un periodo nel quale lo “sposalizio” è stato la principale occasione
di musica, incontro e ballo. Poi le tastiere elettroniche hanno preso il
sopravvento e gli sposalizi sono diventati matrimoni. L’aria condizionata è
entrata in un altro genere di ristorazioni in cui la musica è diventata una
specie di dessert più parente del liscio che dell’epoca mitica dei mantici, dei
violini e delle farfisa.
A Calitri, in alta Irpinia, negli anni in cui è esistita una
comunità, che è poi finita frantumata nelle migrazioni che sono state il sangue
vivo dello sviluppo, questa comunità si è rinnovata e celebrata in un luogo
cardine del paese: la “casa dell’Eca”. Nei racconti della mia infanzia si è
trasformata in “casa dell’Eco”. La casa dove nasceva l’eco. Eco della musica,
degli schiamazzi, delle burle, delle feste, luogo del pantheon dei personaggi
mitici che fanno una comunità in cui si viene ribattezzati e realmente
ri-conosciuti, nel soprannome che la comunità stessa impone, in luogo della
chiesa.
Da qualche decennio la casa dell’Eco tace, e l’unico eco che
si spande è quello dei racconti. Se ci si appendessero dentro le fotografie di
tutte le coppie sarebbe un sacrario di guerra. Giovani con la divisa nuziale
che andavano ad affrontare, sparacchiando, la vita, dopo la sparecchiatura dei
tavoli della casa dell’Eca.
Qualche anno fa, un gruppo di anziani suonatori di
quell’epoca aurea non priva di miseria, ha preso l’abitudine di ritrovarsi
davanti alla posta nel pomeriggio assolato. Avevano l’aria di vecchi pistoleri
in paglietta. A domandargli cosa facessero appostati davanti a quell’ufficio
postale, rispondevano che montavano la guardia alla posta, per controllare
l’arrivo della pensione. Quando l’assegno arrivava, sollevati tiravano fuori
gli strumenti dalle custodie e si facevano una suonata.
Il loro repertorio fa alzare i piedi e la polvere e fa
mettere a ammollo le camicie sui pantaloni. Ci ricorda cose semplici e
durature. Lo eseguono impassibili e solenni, dall’alto del migliaio di
sposalizi in cui hanno sgranato i colpi. Hanno nomi da gloria nella polvere:
Tottacreta, Matalena, il Cinese, Parrucca. Il più impassibile di loro non aveva
nemmeno bisogno di un soprannome, tanto era lapidario il nome originale: Rocco
Briuolo. Ora Rocco è andato a suonare “due Paradisi” tra i santi che ha dipinto
come fossero suoi compari. Tra santo Canio e santo Liborio. Ora può, come nella
vecchia canzone, dire a san Pietro guardando giù, che “il Paradiso nostro è
questo qua”. E con ragione, perché la sua umanità, il suo violino e il suo
pennello, hanno portato un poco di divino in noi, che l’abbiamo conosciuto. La
sua “Banda della Posta” lo accompagna con la filosofia nella quale è vissuto:
un lavoro ben fatto, che non si prende mai sul serio.
A lui è dedicato questo disco fatto di racconti in musica,
cic’ tu cic’ e bottaculo.
A quadriglie, a cinquiglie, fino all’incontrè.
h 21.30
Ingresso 20€